Difendere lo spazio interiore Sono stato due giorni a Milano, nel fine settimana. La mattina mi sono svegliato presto e verso le 5.30 ho camminato per il centro. Era tutto deserto, ad eccezione di qualche figura in piazza Duomo rimasta lì dalla notte. I bar ancora chiusi – ed è paradossale, perché nel mio paese un bar aperto la mattina presto si trova sempre – e attorno soltanto insegne, vetrine, cartelloni pubblicitari, negozi chiusi. Eppure, anche in quel silenzio, Milano mi è apparsa come una macchina sempre pronta ad attivarsi, come se tutto fosse apparecchiato per travolgerti di stimoli, di informazioni, di inviti al consumo e alla corsa. Un tempo mi sarei fatto attirare. Avrei guardato le mostre in programma – e ce n’erano di interessanti: Leonor Fini, Dorothea Lange, Mario Giacomelli – e forse avrei sentito l’urgenza di andare, vedere, approfittarne. Oggi invece mi sento diverso. Non è che non mi piaccia viaggiare o visitare mostre, non è che non provi piacere nell’acqui...
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Visualizzazione dei post da luglio, 2025
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Contro la sensazione di sprecare la vita C’era una sensazione difficile da nominare, ma che talvolta si presentava con chiarezza spiazzante: la sensazione che la vita stesse passando senza lasciare traccia, che le giornate scivolassero via in modo piatto, senza intensità, come una superficie liscia che non riusciva a generare attrito con la mia interiorità. Era una percezione sottile, ma persistente, e credo che proprio da lì sia nato il mio bisogno di introspezione, di scavare dentro, di capire cosa rende una giornata “vissuta” e cosa invece la svuota. Molte persone, quando avvertono questa stessa inquietudine, reagiscono riempiendo: riempiendo il tempo, lo spazio, l’agenda, la mente. Si cerca un rimedio nel movimento, nell’esperienza, nel viaggio, nella novità. E non nego che questa possa essere una strada legittima: ci sono vite intensissime che trovano senso proprio nella varietà, nella scoperta continua, nell’accumulo di esperienze. Ma ho imparato a riconoscere quando quest...
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Un nuovo lavoro interiore Da qualche tempo ho cominciato un lavoro diverso da tutti quelli che ho affrontato finora. Un lavoro interiore. Un esercizio silenzioso ma potente, che non prevede compiti da svolgere né obiettivi da raggiungere, ma che richiede presenza, ascolto e un’estrema onestà verso me stesso. Mi sto abituando a chiedermi, in ogni momento della giornata, come sto . Ma non nel senso abituale della domanda – quel “come stai?” che ci si scambia per cortesia e a cui si risponde con automatismi. No, io mi chiedo davvero come sto, nel corpo, nella mente, nel respiro. Mi chiedo cosa sto provando in quel preciso istante, quali sono le sensazioni fisiche, le tensioni sottili, le emozioni appena accennate. Cerco di cogliere il tono interno di quello che sto vivendo, prima ancora di assegnargli un nome. E subito dopo, provo a domandarmi: cos’è che desidero veramente in questo momento? Non cosa dovrei fare. Non cosa mi conviene fare. Ma cosa desidera davvero una parte profond...
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Il paradosso del tempo libero L’altro giorno ho scritto su Facebook una battuta che ha suscitato qualche sorriso, ma che in realtà nascondeva una riflessione profonda. Diceva più o meno così: “Molti invidiano il mio tempo libero, ma per fortuna non ho i soldi per godermelo. Altrimenti non avrei più tempo libero.” Era un gioco di parole, certo. Ma come spesso accade con le battute, dentro c’è una verità che mi appartiene davvero. Viviamo in un’epoca in cui il tempo libero è considerato un bene di lusso, eppure più ne abbiamo, più sentiamo il bisogno di riempirlo. Di farci qualcosa. E se abbiamo anche i mezzi economici per farlo, allora ecco che il tempo libero rischia di scomparire sotto una montagna di attività, esperienze, spostamenti, corsi, oggetti acquistati online, weekend organizzati al minuto. Non è una critica a chi ha denaro, né tantomeno un elogio della povertà. È solo un’osservazione: la libertà, anche quella temporale, può trasformarsi in una nuova forma di costri...
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Mi sto allontanando dalle persone Mi sto allontanando dalle persone. Non in senso drammatico, non in senso definitivo. E nemmeno in senso ideologico. È qualcosa che semplicemente sta accadendo. Ma non voglio incasellarlo in nessuna categoria: non lo vivo come disagio, non voglio sentirmi né un outsider né un alternativo. È solo che sono sempre meno i momenti in cui sento il desiderio di interagire. E quando succede, lo sento forte, denso, autentico. Non è stanchezza verso gli altri, non è giudizio. Non penso che le persone siano noiose o prevedibili. È che io, in questo momento della mia vita, sono molto preso dalle mie cose. Mi interessa seguire certi fili, certe riflessioni, certi interessi, senza doverli sempre interrompere per “esserci” con qualcuno. Sento che la mia presenza nel mondo oggi ha bisogno di silenzio, di concentrazione, di uno spazio mio, non per chiudermi, ma per ascoltare meglio ciò che mi anima. Anche al bar, dove continuo ad andare ogni giorno, mi accorgo ...
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Una mia riflessione sulla Flagellazione di Piero Di fronte alla Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca si ha subito l’impressione di una scena ordinata. Le linee convergono, le proporzioni sono perfette, lo spazio è costruito con una razionalità limpida. Eppure, più si guarda, più ci si accorge che lo sguardo non trova pace. Cerca un centro e non lo trova. O meglio: il centro c’è, ma non coincide con ciò che pensavamo dovesse esserlo. Il punto di fuga, quel luogo dove tutto dovrebbe confluire, non corrisponde a nessuna figura significativa. È nascosto, defilato, quasi dietro il corpo di un personaggio che sembra secondario. Eppure è lì che la geometria conduce. Come se Piero avesse voluto costruire con una precisione assoluta una dislocazione. Come se la prospettiva, invece di portarci alla verità, ci dicesse che il centro è altrove, che ci sfugge, che non possiamo possederlo. La scena sacra della flagellazione è sullo sfondo, in penombra, mentre in primo piano tre...
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Cosa muove davvero i nostri legami? L’indagine che sto portando avanti sul mio rapporto con il mondo esterno parte da una domanda preliminare e profonda: cosa sono, davvero, le interazioni con gli altri? Viviamo immersi in una rete di relazioni che classifichiamo con etichette rassicuranti: famiglia, amici, colleghi, alunni, conoscenti, contatti. Ma anche sportivi che seguiamo, voci che ascoltiamo in TV, volti che scorrono sui social. Ma cosa resta se togliamo tutto questo? Qual è la sostanza nuda e originaria dello stare in relazione? Mi viene da pensare che, molto prima delle parole, le relazioni avessero una funzione concreta e vitale : servivano a cacciare insieme, a difendersi, a tramare strategie, a prepararsi al pericolo. L’altro non era un ruolo, ma una presenza essenziale alla nostra sopravvivenza. Alleato o minaccia. Appartenenza o isolamento. Fuoco o freddo. E forse, ancora oggi, sotto la superficie raffinata dei ruoli e delle abitudini, queste stesse forze arcaiche cont...
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Il mio rapporto con il cibo Primo capitolo del dialogo con l’esterno In questo blog ho spesso scritto del mio mondo interiore, delle trasformazioni che negli ultimi anni hanno attraversato le mie giornate, dei piccoli gesti che compongono oggi una vita più sobria, consapevole, essenziale. L’ho fatto parlando di mattine, di ritmi, di allenamento, di scrittura, di alimentazione, ma sempre a partire da dentro, come se il cuore di tutto fosse la voce silenziosa che guida le mie scelte. Ora però sento la necessità di esplorare anche l’altra direzione: quella del mio rapporto con ciò che è fuori. Il mio rapporto con l’esterno – non solo con le persone, ma anche con gli spazi, gli oggetti, i riti collettivi, le abitudini sociali. Tutto ciò che non coincide con il mio io, ma che contribuisce a definirlo, plasmarlo, sfidarlo. Se ho imparato ad ascoltare ciò che accade dentro di me, ora voglio anche osservare con più attenzione come mi muovo nel mondo e come il mondo mi raggiunge. In questa ser...
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Guardare fuori di me Verso un’indagine dei rapporti umani oltre le narrazioni sociali Dopo aver messo ordine nel mio mondo interiore, sostenuto da due pilastri che si stanno rivelando centrali per il mio equilibrio, la scuola vissuta come spazio mentale e progettuale e quella che nel mio lessico personale ho imparato a chiamare “letteratura obliqua”, sento che è arrivato il momento di rivolgere lo sguardo verso l’esterno, verso il mondo delle relazioni che si muove attorno a me. Quando parlo di scuola, non intendo in primo luogo un luogo fisico o un insieme di mansioni, ma un universo di pensieri che mi accompagna ogni giorno: ore dedicate a risolvere quesiti delle gare e di approfondimento, a produrre materiali didattici, a immaginare e riformulare strategie educative, a riflettere sui rapporti con i ragazzi, sulle dinamiche dell’apprendimento, sulla crescita. E accanto a questo, l’altro pilastro che negli ultimi mesi ha preso forma e si è consolidato come risorsa quotidiana: quell...
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La letteratura obliqua In questi giorni estivi, mentre il tempo si distende e i ritmi rallentano, mi è sempre più chiaro che sto vivendo una nuova fase. Il mio lavoro continua, come sempre, con letture, preparazione di materiali, studio. Ma ciò che cambia è il modo in cui tutto questo mi attraversa. La scuola non è più per me un dovere da sospendere nel tempo libero, né un ruolo da ricoprire. È diventata il mio spazio interiore, il mio modo di essere al mondo, una forma concreta e quotidiana di presenza. Anche ora che le lezioni sono ferme, non sento il bisogno di staccare. Continuo a pensare, a costruire, a cercare. E tuttavia, dentro questa continuità, qualcosa si è mosso. È emersa con forza una necessità diversa, più profonda, che ha preso lentamente consistenza. Sento il bisogno di uno sguardo che mi accompagni senza trattenere, che mi permetta di essere nel mondo senza esserne assorbito, di pensarmi senza dovermi raccontare sempre allo stesso modo. È stato leggendo Robert Walser c...
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L’ossessione di non essere un insegnante medio Riflessioni sul mestiere dell’insegnare Il mio mestiere di insegnante è da sempre attraversato, sul fondo, da un'inquietudine. Un'inquietudine che ha un nome preciso: Pier Paolo Pasolini. Le sue parole – quelle sulla scuola che forma alla medietà – tornano spesso a interrogarmi. Pasolini distingueva tra la cultura trasmessa dall’alto, istituzionale e addestrativa, e quella che nasce dal basso, dal contesto, dai valori respirati nel proprio ambiente, sempre più inautentico dopo il boom economico. E poi parlava di una vera cultura che diventa tale solo quando è interiorizzata, fatta propria, trasformata in visione personale. Questa visione non coincide con lo specialismo tecnico, ma con la profondità di chi ha scavato dentro le cose, fino a farle diventare sguardo sul mondo. E allora mi chiedo: la scuola che vivo e che cerco di costruire ogni giorno, è una scuola che apre o che addestra? Forma alla consapevolezza o all’adattamen...
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Uscire dagli automatismi Riflessioni sulle abitudini che ci rendono vivi Mi accorgo sempre più chiaramente che molte persone vivono intrappolate in abitudini e piccoli vizi che non si sono realmente scelti. Sono comportamenti che si ripetono ogni giorno, che offrono un conforto momentaneo, ma che alla lunga impoveriscono. Non giudico, anzi, comprendo: anche io ci sono passato. Ma negli ultimi tempi ho maturato una convinzione profonda — le abitudini sono fondamentali, ma solo se sono scelte e costruite con cura, se ci rispecchiano davvero, se ci appagano in profondità. Sto imparando a distinguere tra ciò che mi dà un piacere autentico e ciò che mi offre solo una tregua. Un esempio su cui sto riflettendo molto in questo periodo riguarda il tempo che passo al bar. Se la mattina dedico un'ora e mezza a chiacchierare con amici con cui sto bene, se quell'incontro è denso, spontaneo e vitale, allora ha senso. Ma non per questo ha senso replicare l’esperienza in altri momenti, in ...