Un nuovo lavoro interiore
Da qualche tempo ho cominciato un lavoro diverso da tutti quelli che ho affrontato finora. Un lavoro interiore. Un esercizio silenzioso ma potente, che non prevede compiti da svolgere né obiettivi da raggiungere, ma che richiede presenza, ascolto e un’estrema onestà verso me stesso.
Mi sto abituando a chiedermi, in ogni momento della giornata, come sto. Ma non nel senso abituale della domanda – quel “come stai?” che ci si scambia per cortesia e a cui si risponde con automatismi. No, io mi chiedo davvero come sto, nel corpo, nella mente, nel respiro. Mi chiedo cosa sto provando in quel preciso istante, quali sono le sensazioni fisiche, le tensioni sottili, le emozioni appena accennate. Cerco di cogliere il tono interno di quello che sto vivendo, prima ancora di assegnargli un nome.
E subito dopo, provo a domandarmi: cos’è che desidero veramente in questo momento? Non cosa dovrei fare. Non cosa mi conviene fare. Ma cosa desidera davvero una parte profonda e autentica di me, magari ancora inespressa, forse scomoda da ascoltare.
Mi sono accorto che spesso l’impulso di fare qualcosa nasce dal bisogno di colmare un vuoto. Un tempo sospeso, un attimo di silenzio, una lieve inquietudine. E allora la mente corre a cercare un’attività qualsiasi, qualcosa che dia l’illusione di un senso: aprire una pagina web, sistemare un oggetto, cominciare un lavoro che poteva attendere. Ma non tutto ciò che si fa è necessario. E non tutto ciò che riempie, nutre.
Questo è il punto cruciale del mio lavoro interiore: distinguere tra un’azione che nasce da un’esigenza vera e un’azione che serve solo a tappare un buco. Tra qualcosa che si fa per abitudine, per innesco meccanico, e qualcosa che si sente davvero, con intensità e adesione.
È un discernimento sottile, ma decisivo. Perché è lì, in quella soglia tra il fare automatico e il fare consapevole, che si gioca gran parte della qualità della vita.
Non significa rinunciare a ciò che “devo” fare. Ci sono impegni casalinghi, lavorativi, relazionali che fanno parte della vita. Ma anche in quei momenti cerco di chiedermi: sto svolgendo questa attività in quanto espressione coerente di me, oppure perché mi sento incastrato in una narrazione sociale che mi attraversa senza interrogarmi?
La risposta non è sempre netta, ma il solo fatto di pormi la domanda cambia la mia posizione interiore. Mi restituisce potere. Mi permette di abitare anche i gesti obbligati con uno sguardo diverso, più libero, più vivo.
Poi c’è un’altra domanda che arriva, quasi spontanea: cosa vorrei provare in questo momento? Quale emozione desidererei abitare?
E ancora: se il mio cervello fosse un alleato spontaneo, libero da automatismi e condizionamenti, cosa mi porterebbe a fare per farmi sentire pieno, denso di significato?
Non sempre ho una risposta chiara. Ma anche qui, è il processo che conta più della risposta. Il fatto stesso di aprire lo spazio della domanda mi fa uscire dal pilota automatico. Mi mette in relazione con una parte più viva e creativa di me.
Questo lavoro interiore non è un esercizio di introspezione fine a se stesso. È una riscrittura continua del mio rapporto con il mondo. Perché quando cambio il modo in cui mi relaziono a ciò che faccio, cambio anche il modo in cui esisto. E cambia il modo in cui gli altri mi vedono, e il modo in cui io vedo loro.
Sto imparando che ogni attività – anche la più semplice – può essere il luogo di un senso, oppure la sua negazione. Dipende da come ci entro, da quanto sono presente, da quanto mi lascio attraversare. Questo è, forse, il senso più autentico di quella parola spesso abusata: consapevolezza.
E allora continuo, ogni giorno, a chiedermi: come sto?
E cosa desidero davvero in questo preciso istante?
Non per cambiare vita. Ma per vivere davvero.
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