La letteratura obliqua

In questi giorni estivi, mentre il tempo si distende e i ritmi rallentano, mi è sempre più chiaro che sto vivendo una nuova fase. Il mio lavoro continua, come sempre, con letture, preparazione di materiali, studio. Ma ciò che cambia è il modo in cui tutto questo mi attraversa. La scuola non è più per me un dovere da sospendere nel tempo libero, né un ruolo da ricoprire. È diventata il mio spazio interiore, il mio modo di essere al mondo, una forma concreta e quotidiana di presenza. Anche ora che le lezioni sono ferme, non sento il bisogno di staccare. Continuo a pensare, a costruire, a cercare.

E tuttavia, dentro questa continuità, qualcosa si è mosso. È emersa con forza una necessità diversa, più profonda, che ha preso lentamente consistenza. Sento il bisogno di uno sguardo che mi accompagni senza trattenere, che mi permetta di essere nel mondo senza esserne assorbito, di pensarmi senza dovermi raccontare sempre allo stesso modo.

È stato leggendo Robert Walser che questa esigenza ha preso forma. Nei suoi testi ho riconosciuto un modo di camminare lieve ma netto, uno sguardo che non pretende di ordinare il mondo, ma si avvicina a esso con discrezione, con attenzione laterale. Walser non cerca di definire, non forza il senso, non impone una direzione. Il suo passo si muove ai margini, sceglie di non stabilire, ma di rimanere. E proprio lì, in quella sospensione, ho riconosciuto ciò che mancava nella mia interiorità: una zona franca, una soglia, uno scarto.

Non cerco una letteratura che intrattiene, né quella che offre rispecchiamento o consolazione. Non cerco nemmeno quella che si fa portavoce degli esclusi, o che si erge a contro-narrazione del mondo, opponendo resistenza, denuncia o ribellione. La letteratura che mi è necessaria oggi non prende posizione, ma apre una distanza. Non si schiera, ma devia. Non propone alternative, ma fa vacillare la compattezza delle risposte. È una letteratura che non chiede di identificarsi, ma di restare vigili. Che non cerca la verità, né psicologica né esteriore, ma la lascia affiorare in frammenti, attraversando ciò che sfugge. Che non dà forma, ma consente lo spazio per restare in movimento.

Questa forma di scrittura non si impone e non si sottrae. Cammina lungo il bordo, permette di restare dentro e fuori, di vedere e insieme disorientarsi. Non è evasione, non è impegno. È una modalità dello sguardo. Una compagnia silenziosa che non protegge ma espone, che non raccoglie ma disperde, che non conferma ma lascia irrisolti.

Forse è questo il segno del passaggio che sto vivendo. Per anni ho sentito il bisogno di definirmi, anche attraverso ciò che amavo. La scuola, la matematica, il cinema, l’arte, la filosofia. Tutto ciò che ho coltivato con passione ha avuto anche una funzione identitaria. Ora qualcosa è cambiato. Non cerco più conferme né coerenze. Cerco piuttosto uno spazio in cui lasciar decantare ciò che sento, senza doverlo fissare. Ho bisogno di un mondo in cui riconoscermi ogni giorno da capo, e di uno sguardo che mi ricordi che non devo essere sempre quello che credo di essere.

La scuola continuerà a darmi senso, concretezza, ritmo. Ma sarà questa letteratura obliqua, senza centro e senza bordi, a tenermi sospeso quanto basta per non coincidere mai del tutto nemmeno con me stesso.













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