Mi sto allontanando dalle persone

Mi sto allontanando dalle persone. Non in senso drammatico, non in senso definitivo. E nemmeno in senso ideologico. È qualcosa che semplicemente sta accadendo. Ma non voglio incasellarlo in nessuna categoria: non lo vivo come disagio, non voglio sentirmi né un outsider né un alternativo. È solo che sono sempre meno i momenti in cui sento il desiderio di interagire. E quando succede, lo sento forte, denso, autentico.

Non è stanchezza verso gli altri, non è giudizio. Non penso che le persone siano noiose o prevedibili. È che io, in questo momento della mia vita, sono molto preso dalle mie cose. Mi interessa seguire certi fili, certe riflessioni, certi interessi, senza doverli sempre interrompere per “esserci” con qualcuno. Sento che la mia presenza nel mondo oggi ha bisogno di silenzio, di concentrazione, di uno spazio mio, non per chiudermi, ma per ascoltare meglio ciò che mi anima.

Anche al bar, dove continuo ad andare ogni giorno, mi accorgo che spesso preferisco sedermi da solo. Non è una scelta legata soltanto al fatto che non ho più voglia di fare aperitivi o cene — che sembrano essere rimasti, per molti, gli unici modi per stare insieme. In realtà, anche nel gesto più semplice, come prendere un caffè, spesso sento il bisogno di restare in disparte, immerso nei miei pensieri. Non è isolamento, ma uno spazio intimo, che mi serve per osservare, leggere, riflettere. È come se il mio modo di essere con gli altri stesse cambiando, e non potesse più passare per forza da un tavolo condiviso o da un brindisi.

In realtà, non mi sto chiudendo. Continuo a guardare le persone, ad ascoltarle, a scambiare due parole con l’edicolante, con la fruttivendola, con chi incontro nei piccoli snodi della quotidianità. Sono scambi brevi, ma vivi, perché nascono da un moto autentico, non da un dovere sociale. Non rispondono al bisogno di riempire il silenzio, ma alla voglia, in quel preciso momento, di entrare in relazione. E forse è proprio questo a renderli così intensi: sono incontri leggeri e insieme significativi, proprio perché liberi.

Anche il mio modo di vivere tutto questo è reso più semplice — o più radicale — dal fatto che non ho amicizie o rapporti di parentela vincolanti. Fondamentalmente ci siamo io e la mia compagna. Una scelta che non è mai stata frutto di chiusura, ma di consapevolezza. Ho imparato che, quando comincio a legarmi troppo a un ambiente, a un gruppo, a una dinamica relazionale stretta, qualcosa in me tende a fuggire. Come se, per restare libero, dovessi sottrarmi in tempo a qualsiasi vincolo. È una forma di fedeltà a me stesso, che mi ha portato nel tempo a coltivare una vita affettiva intensa ma essenziale, senza sovrastrutture, senza obblighi non scelti.

È difficile descrivere tutto questo al di fuori delle narrazioni sociali, delle categorie che ci portiamo dentro: solitudine, compagnia, isolamento, apertura, misantropia, socievolezza. Io non mi riconosco in nessuna di queste. Io semplicemente vivo così, adesso. E vedo, ascolto, penso, respiro. Da solo, sì. Ma non senza il mondo.

E nel paese in cui vivo, dove tutto è più visibile, dove ci si conosce, ci si saluta, ci si osserva, questo modo di stare un po’ defilato risalta ancora di più. È come se, appena si mette piede fuori casa, si cessasse di essere individui per diventare automaticamente esseri sociali, esposti, coinvolti. Non si ha quasi più diritto a uno spazio privato, anche solo per camminare assorti nei propri pensieri. E questa è una cosa anche bella, perché crea un senso di comunità e di vicinanza, ma può generare allo stesso tempo un sottile disagio. Perché a volte si ha bisogno di esserci senza dover partecipare. Di stare nel mondo senza doverci per forza conversare.


Davide e Golia - Odilon Redon



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