Il mio rapporto con il cibo
Primo capitolo del dialogo con l’esterno
In questo blog ho spesso scritto del mio mondo interiore, delle trasformazioni che negli ultimi anni hanno attraversato le mie giornate, dei piccoli gesti che compongono oggi una vita più sobria, consapevole, essenziale. L’ho fatto parlando di mattine, di ritmi, di allenamento, di scrittura, di alimentazione, ma sempre a partire da dentro, come se il cuore di tutto fosse la voce silenziosa che guida le mie scelte.
Ora però sento la necessità di esplorare anche l’altra direzione: quella del mio rapporto con ciò che è fuori. Il mio rapporto con l’esterno – non solo con le persone, ma anche con gli spazi, gli oggetti, i riti collettivi, le abitudini sociali. Tutto ciò che non coincide con il mio io, ma che contribuisce a definirlo, plasmarlo, sfidarlo. Se ho imparato ad ascoltare ciò che accade dentro di me, ora voglio anche osservare con più attenzione come mi muovo nel mondo e come il mondo mi raggiunge.
In questa serie di scritti, vorrei indagare di volta in volta un aspetto di questo dialogo. E scelgo di partire dal cibo, che è forse il luogo più evidente e fisico dell’incontro tra interno ed esterno. Nulla come il cibo attraversa, letteralmente, il confine tra mondo e organismo: è materia estranea che diventa parte di noi, è gesto quotidiano e insieme esperienza profonda.
Da qualche tmepo ho iniziato un percorso che amo definire, con una certa ironia, di decrescita personale, in contrapposizione con l’ideologia della “crescita” che sembra pervadere tutto: crescita interiore, crescita professionale, crescita spirituale, crescita dell’autostima, delle relazioni, dei progetti. Io ho sentito invece la necessità opposta: decrescere, ridurre, sottrarre, disfare. Non per impoverire la mia vita, ma per liberarla da ciò che era superfluo, ripetitivo, appiccicato addosso. Non una rinuncia, ma un ritorno all’essenziale – e per me l’essenziale non è ciò che resta quando si toglie tutto, ma ciò che consente al mio io di espandersi in modo autentico. Un’espansione che non passa attraverso l’accumulo, ma attraverso la chiarezza.
All’interno di questo processo, il cibo è stato una delle trasformazioni più profonde. Tutti sanno – e spesso lo ripetono senza troppa consapevolezza – che il cibo è tradizione, convivialità, identità, piacere, conforto. Ma nel mio percorso ho sentito il bisogno di spogliarlo di questi significati, che troppo spesso diventano zavorra. Per me, oggi, il cibo è una sorgente di nutrimento e di piacere. Punto. Non più un contenitore simbolico, non più una narrazione culturale, ma una funzione concreta: ciò che mi nutre e mi soddisfa.
Questa distinzione tra nutrimento e simbolo è diventata per me fondamentale. Ma ancor più importante è distinguere tra nutrimento ed energia. Nella nostra cultura si dà spesso per scontato che il cibo serva a “darci energia”, e da qui nasce l’idea che saltare un pasto sia un danno o un rischio. Ma un organismo sano – cioè non dipendente dal picco glicemico – è perfettamente in grado di affrontare non solo un pasto saltato, ma anche intere giornate senza cibo. Il corpo possiede riserve energetiche pronte all’uso: il glicogeno epatico e muscolare, ma soprattutto il grasso accumulato. Il problema reale non è l’energia: è il nutrimento. Non bisognerebbe saltare i pasti per via dei nutrienti e non del contenuto energetico.
E comunque se salto un pasto ma in quelli precedenti ho fornito al mio organismo ciò di cui ha davvero bisogno – proteine complete, grassi sani, vitamine, sali minerali, fibre – allora non gli sto facendo mancare nulla. Il vero rischio, paradossalmente, è il contrario: mangiare ad ogni pasto e non nutrirsi mai davvero. Mangiare senza costruire, senza rigenerare, senza fornire i mattoni fondamentali della salute. È per questo che, oggi, un piatto di pasta al pomodoro – pur buono, pur familiare – non rappresenta per me un nutrimento adeguato. Non perché non sia cibo, ma perché non è sufficiente, non è completo, non è utile a ciò di cui il mio corpo ha bisogno. Il mio cervello, ormai, lo riconosce come un pasto vuoto. E con il tempo anche il gusto si è trasformato: le papille si sono risettate, e oggi provo una gioia autentica nel mangiare cibi semplici, poco cucinati, naturalmente nutrienti.
Inoltre preparo quasi tutto a vapore e condisco solo dopo, con olio extravergine e sale. Così sento meglio i sapori, e il corpo risponde con leggerezza e lucidità. Quando mangio fuori casa, spesso avverto un disagio immediato: le cotture intense, le griglie, gli arrosti, le spezie troppo forti mi stancano, mi disturbano. Verdure ovviamente ma anche carne magra e pesce li preferisco a vapore, e negli ultim tempi pure la carne rossa. È una questione di salute, certo, ma anche di gusto, di desiderio, di coerenza con quello che sono diventato. Francamente non credo nemmeno più alla cucina come forma d’arte. Non m'interessa che il cibo diventi spettacolo, messinscena, creazione estetica. Non cerco piatti sorprendenti o geniali. Cerco ciò che mi fa bene e mi piace, senza sovrastrutture. Voglio che il cibo sia cibo. Nient’altro.
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