Contro la sensazione di sprecare la vita
C’era una sensazione difficile da nominare, ma che talvolta si presentava con chiarezza spiazzante: la sensazione che la vita stesse passando senza lasciare traccia, che le giornate scivolassero via in modo piatto, senza intensità, come una superficie liscia che non riusciva a generare attrito con la mia interiorità.
Era una percezione sottile, ma persistente, e credo che proprio da lì sia nato il mio bisogno di introspezione, di scavare dentro, di capire cosa rende una giornata “vissuta” e cosa invece la svuota.
Molte persone, quando avvertono questa stessa inquietudine, reagiscono riempiendo: riempiendo il tempo, lo spazio, l’agenda, la mente. Si cerca un rimedio nel movimento, nell’esperienza, nel viaggio, nella novità. E non nego che questa possa essere una strada legittima: ci sono vite intensissime che trovano senso proprio nella varietà, nella scoperta continua, nell’accumulo di esperienze. Ma ho imparato a riconoscere quando questa ricerca nasce davvero da un’urgenza interiore e quando invece è solo una risposta automatica a un’immagine sociale, a una narrazione dominante che ci dice che una vita vera è una vita “piena”, “ricca”, “intensa”, come se si trattasse di spuntare caselle da una check list esistenziale.
Io, invece, ho capito che non ho bisogno di accumulare. Anzi, più cerco densità, meno mi serve varietà. La mia densità si gioca tutta nella qualità della presenza, non nella quantità delle esperienze. Non ho bisogno di fare cose straordinarie per non sentirmi vuoto: mi basta che ciò che faccio, anche se semplice, parta da un’esigenza vera. Che sia lo studio della matematica, la lettura di un romanzo, l’ascolto attento di un disco, l’analisi di un’opera d’arte, o la scrittura su un film che mi ha colpito—quello che conta è che sia un gesto connesso con me, con la mia storia, con il mio sentire più profondo.
In passato, amavo dedicarmi ad attività culturali con una forte componente esterna: organizzare rassegne, curare eventi, progettare festival. C’è stato un tempo in cui mi sarebbe piaciuto fare l’assessore alla cultura, e un altro in cui tentavo di girare piccoli film. Oggi sento un’esigenza diversa, forse più silenziosa ma più radicata: non ho più voglia di “fare” per apparire, per ottenere, per dimostrare. Voglio solo assecondare i moti interiori. Se un giorno sento il desiderio di leggere, lo faccio. Ma non per riempire il tempo, non per combattere la noia, non per darmi un tono: leggo se sento che quelle parole possono entrare in risonanza con me, se avverto che è lì, in quel gesto, che posso abitare la mia giornata.
Anche quando decido di uscire di casa, voglio che sia per un’esigenza che parte da dentro. Anche se so che mi aspetta una conversazione leggera, magari superficiale, voglio che ci sia una motivazione autentica, anche minima, che mi muova. Non voglio più uscire solo per abitudine, per inerzia. Voglio essere mosso da qualcosa, anche piccolo, ma vero. Anche le routine che costruisco—e ne ho bisogno, come tutti—devono avere un’aderenza emotiva, non solo funzionale. Non voglio fare qualcosa “perché si fa”, “perché mi fa bene”, “perché è giusto”: voglio sentire che mi appartiene.
Tra tutte le trasformazioni interiori che ho attraversato in quest’ultimo anno, ce n’è una che considero la più profonda: sono riuscito a trasformare la scuola nel mio mondo. Non vado più a scuola solo perché è il mio lavoro, o perché devo. Ci vado perché ho creato le condizioni perché lì il mio io possa conciliarsi con il mondo esterno. È diventato il luogo dove la mia interiorità trova una forma. È lì che il soggetto incontra l’oggetto, che il dentro si misura con il fuori. Non è solo una questione di “amare l’insegnamento”: è molto di più. È il fatto che insegnare, per me, è un modo per esistere pienamente, per entrare nel tempo della giornata con senso.
E poi ci sono i momenti in cui non sento nulla. In cui non nasce alcun desiderio, nessuna urgenza, nessuna scintilla. In quei momenti ho imparato a non forzare, a non cercare distrazioni, né contenuti, né compagnie che possano colmare il vuoto. Ho imparato a stare fermo, a lasciar respirare quel tempo vuoto, senza trasformarlo in un problema. Anche questo, forse, è vivere con densità: saper abitare il silenzio senza ansia, accogliere l’assenza di senso senza inventarne uno per forza.
E così, lentamente, senza accumulare nulla, sento di non sprecare la vita.
I giorni bui li attraversiamo tutti, prima o poi. Fa parte dell’essere umani. Ma c’è sempre un modo per alleggerire quella malinconia: basta uscire con noi. Solo alle (roccoalle)nove!
RispondiEliminachi ha parlato di giorni bui? non era questo il senso del post
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