Chi sono?


È una domanda che ritorna, ma oggi la sento diversa. Non come ricerca di un’identità stabile, piuttosto come esigenza di equilibrio. Mi sto osservando mentre metto a posto le fasi della mia giornata e del mio ciclo settimanale, cercando di capire che cosa mi dà aria e che cosa me la toglie. Non è un esercizio di efficienza, ma un tentativo di riconoscermi nei miei stessi gesti: capire quali momenti mi fanno sentire pieno e quali invece sono solo riempitivi. Ma tutto questo ha senso solo se inserito in un contesto che non è più quello in cui sono cresciuto — la narrazione che per anni ha offerto un orizzonte ma che oggi percepisco anche come una possibile fonte di disorientamento. Il mio contesto di senso è ciò che sento di essere e ciò che, con misura, vorrei diventare.

Oggi sento di voler vivere in uno spazio tra superficialità e profondità, uno spazio che dia luce al mio vivere. Lì molte cose passano e sembrano non lasciare traccia, ma in realtà vengono filtrate, elaborate, trasformate dal mio sguardo. Non cerco più di trattenere tutto: lascio scorrere, certo che ciò che deve restare lo farà da sé.

Ieri, per esempio, ho fatto ricerche su Rodney Smith, e il giorno prima su Oscar Niemeyer. Due nomi lontani, che però si sono incontrati nel mio spazio interstiziale, in quella zona in cui la curiosità diventa esperienza e la conoscenza assume la forma di una compagnia discreta. Cosa mi lasceranno? Non lo so. Forse torneranno più avanti, forse no. Ma qualcosa è già accaduto: hanno generato domande.

Riflettendo su Niemeyer mi porto dietro da tempo un dubbio: quanto l’architettura dovrebbe essere rispettosa non solo del contesto fisico ma anche dei gusti del contesto umano? In fondo ogni architettura è un’opera pubblica, ma i gusti cambiano, e sono a loro volta frutto di una narrazione. L’architettura non dovrebbe allora, almeno in parte, intervenire su quella narrazione, smontarla, offrirne una nuova? Penso alle discussioni con i miei studenti sul nostro edificio scolastico — una costruzione neo-razionalista, cemento armato a vista, geometrie rigorose — che ai loro occhi risulta fredda, spoglia, difficile da leggere. Vorrei dare loro l’alfabeto per decifrarne la bellezza.

E poi c’è Rodney Smith, che mi riporta a Magritte, a quel surrealismo che da ragazzo amavo molto e che con il tempo ho cominciato a leggere in modo diverso: soluzioni d’impatto, eleganti, ma spesso troppo leggibili, a volte prevedibili nel gioco delle contrapposizioni. Eppure non l’ho abbandonato del tutto: Smith, per esempio, vorrei vederlo dal vivo, alla mostra di Rovigo. Ma se devo riconoscermi, credo di essere più vicino al pre-surrealismo simbolista di Odilon Redon, o al post-surrealismo di certo realismo magico — penso a Peter Doig — dove la dimensione esistenziale è più implicita, meno gridata, dove l’immagine non cerca di stupire ma di trattenere un mistero.

E forse è proprio questo il mio modo di stare al mondo: oscillare tra ciò che appare e ciò che resta sotto la superficie, lasciare che le cose mi attraversino senza la pretesa di definirle del tutto, filtrandole con uno sguardo che cambia e si affina. Coltivare curiosità e sensibilità non per sapere di più, ma per abitare meglio quello spazio intermedio che, più che una scelta, è ormai la mia natura.

Ecco, questo sono io — o almeno il tentativo, ogni giorno, di vedermi un po’ più chiaramente attraverso ciò che penso, leggo, insegno e sento.
Peter Doig

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