Riflessioni 16-23 novembre


Superare la nostalgia
Ieri e ieri l’altro eri a Roma. Un concerto, il quartiere delle tue serate, la sensazione di essere nel tuo elemento, con chi ha condiviso con te emozioni, film, alcol, arte. E basta poco perché la nostalgia ti salga addosso: torni nel paese dove vivi e tutto appare più stretto, più semplice, più prevedibile. Qui si beve, si parla di politica e di sport, di quanto si è mangiato bene in quel locale e pagato il giusto, si frequentano eventi culturali medi o accademicamente ingessati che servono più a sentirsi colti che a nutrirsi davvero.
E in quel momento rischi di dimenticarti ciò che sai su te stesso: che la tua è una malattia che conosci, la guardi in faccia, la studi ogni giorno. Gli altri no. Gli altri curano la loro come possono, e in un paese piccolo lo fanno così, come è sempre stato. In una città grande, invece, si vive circondati da antidoti culturali più raffinati, ma con lo stesso cibo e lo stesso alcol usati come anestetici di massa.
Così non perdi il focus. Oggi ti svegli alle cinque, come sempre. Lavori al computer, come sempre. Vai un po’ in palestra, come sempre. E siccome è domenica, salti la scuola e tiri dritto verso Fano, per quella passeggiata lungomare che ti rimette al mondo, in compagnia di uno che della malattia della vita e della società sapeva qualcosa.
E lì, mentre cammini, capisci che la nostalgia si supera non scappando, ma restando in equilibrio tra ciò che eri, ciò che sei e il passo che stai facendo adesso.

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Ormai ti è sempre più chiaro: passi le giornate a calmare la tua mente come si fa con un bambino piccolo che ha bisogno di essere distratto. Da cosa? Non importa, ora non giudicare, descrivi.
Come un bambino piccolo, al tuo cervello non puoi dare tutto ciò che chiede, altrimenti si vizia e diventa ancora più capriccioso. Come si fa a far star bene un bambino senza viziarlo e senza farlo diventare ancora più inquieto e capriccioso? In realtà cosa stai facendo? Stai calmando o anestetizzando la tua mente? Non giudicare, descrivi soltanto.
Ti svegli presto, alle cinque. Ormai l’hai impostata così, sembra funzionare. Fai la doccia, prendi un caffè e ti siedi al computer. Lavori, ricerchi, scrivi, con la musica in cuffia. Ti senti appagato. Appagato o anestetizzato? Non giudicare, descrivi.
Stamattina correggi i compiti. Correggere i compiti era una pratica noiosa. Adesso invece tutto ciò che fai al computer alle cinque del mattino è “bello”: correggi, poi cambi, rispondi a un commento, scorri Facebook, ti compare un contenuto su un artista, cerchi materiale, scrivi un post. Perché senti il bisogno di postare? Non giudicare, descrivi.
Dopo un’ora e mezza, due, ti viene fame. Prepari la colazione e, se serve, il pranzo. Subito dopo senti che la mente ricomincia a muoversi, a diventare inquieta: non sa cosa vuole. Vai al bar, prendi un altro caffè e “parti”. Dove? Dipende. Oggi hai scuola alle undici, allora parti per Urbino, fai un giro, una lunga camminata con sosta al bar. Così la mente si quieta. Si quieta o si anestetizza? Non giudicare, descrivi.
Poi vai a scuola. La scuola, gli studenti, i loro sguardi, i colleghi, ora fanno parte della cura. No, stai andando troppo in profondità, torna in superficie. I colori, le forme di cose e persone, i segni che tracci sulla lavagna, i suoni che ti circondano e che sei abituato a chiamare parole, a pensare come “significati”, ti curano.
Basta, torna a correggere.
E così via, ecc ecc. ________________________________________________________________________

Poi arriva la sera. Dopo un’intera giornata trascorsa ad addomesticare il tuo cervello, a nutrirlo senza viziarlo, lui cosa fa? Quieto, quasi pronto al sonno, ti propone i suoi dubbi esistenziali: è questa la vita che vuoi? Passare il tempo a scovare artisti, ascoltare musica, scrivere post, condividere ciò che ami, fare esercizi di matematica, camminare, prendere caffè, dividere spazio e tempo, libertà e affetto con la tua compagna e il tuo gatto? E poi ti chiede: bravo, ma cosa hai fatto davvero oggi? È valsa la pena vivere?
Allora guardi gli altri. Ci sono quelli che vivono nel loro negozio, nel loro studio, nel loro lavoro come se fosse il loro spazio vitale, e quelli che invece lo detestano che se potessero gli darebbero fuoco. Ci sono quelli che si tengono a galla con gli sfoghi che la società mette a disposizione: alcol, cibo, sigarette, gratta e vinci, scommesse. Quelli che aspettano il fine settimana, il giorno libero o la pensione. Ma così rischi di giudicare, e se giudichi non capisci. Torna indietro
Perché ti vengono questi dubbi? Forse è solo la tua mente che non vuole addormentarsi, che cerca un appiglio per restare vigile anche quando sarebbe il momento di lasciarsi andare. Potresti prendere un libro, come fanno in molti. Potresti accendere la televisione, lasciarti assorbire da una serie, da una partita, da un talk. Oppure potresti semplicemente permettere alla tua mente di mostrarti i suoi dubbi e guardarli dall’esterno, come se non fossero davvero tuoi, come se appartenessero a lei o al mondo intero. _________________________________________________________________________

Tu non hai nessuna necessità di uscire il sabato sera. Eppure dentro ti rimane una sensazione sottile, come se gli altri fossero più “dentro” la vita di quanto ti senta tu. Ma a te interessa svegliarti presto la domenica mattina, lavorare, andare in palestra, prendere la macchina e andare verso il mare, verso le tue soste al bar, verso il tuo yogurt, verso le tue letture. È questo che ti piace. Allora perché devi sentire di non essere al passo?
Ti guardi dentro e ti rendi conto di quanto abbiano pesato, e pesino ancora, non tanto le aspettative degli altri in sé, quanto il tuo modo di percepirle. Come le hai introiettate, come le hai lasciate filtrare nello sguardo su di te, fino a offuscare quello che eri davvero. Più di ciò che gli altri si aspettavano, ha contato come tu credevi che ti volessero: come dovevi apparire, che adulto saresti dovuto diventare, persino quali pensieri fossero più “adatti” a te.
E però, se ti guardi intorno, il tuo essere una forma se l’è presa comunque. Insegni, e cos’altro sapresti fare se non insegnare quello che sai, quello che ti piace trasmettere. La sera resti a casa perché ti piace andare a dormire presto e svegliarti presto. Sei rimasto quel bambino un po’ ingenuo, un po’ sfasato, un po’ astratto che sei sempre stato.
Oggi pomeriggio riprendi la macchina e vai al cinema fuori, perché ci sono i Dardenne che chiamano e i film dei Dardenne li vedi sempre. Forse è una delle poche cose che fai perché la senti davvero, e non per tenerti aggrappato a quella cinefilia che hai coltivato e poi un po’ disperso.
E capisci che non è facile far entrare il tuo essere nelle forme previste dalla società, ma soprattutto dal tuo modo di vederle: forme che più che richieste, erano percepite. E invece, col passare degli anni, si è sistemato altrove, secondo tempi che non erano quelli richiesti né percepiti, ma erano i tuoi.




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