Siamo tutti malati.
Non nel corpo, ma nel modo in cui la società ci prende le misure e ci confeziona un dolore di serie, per poi venderci l’anestesia a rate: cibo consolatorio, alcol, fumo, schermi, scommesse, tifoserie. Li chiamiamo “piaceri”, perché senza di loro — ci dicono — si vivrebbe una vita triste; in realtà sono leve neuro-chimiche che smorzano il rumore di fondo.
Infine i “valori”: non etichette morali, ma i pilastri che danno forma al giorno — soldi, lavoro, famiglia, svago. Sono il telaio che organizza gli orari, orienta l’identità, sincronizza gli ormoni con gli impegni. Possono essere fondamenta o gabbia: dipende dall’uso e dall’idea che ci abita.
Io l’ho capito quando ho cominciato a scardinare l’intero contesto, vite e credenze comprese.
Per anni ho creduto che il senso fosse trovare un buon lavoro, mettere su famiglia, coltivare interessi. Intanto, però, a tenermi in vita erano le micro-anestesie quotidiane: il cibo che consola, il caffè, il bar, le passeggiate, le sale cinematografiche, e un’identità cucita addosso a forza di abitudini.
Oggi la mia terapia non rinnega quegli stessi strumenti: cammino, mangio in modo scelto, mi nutro d’arte. Ma soprattutto lavoro. Il lavoro, spogliato dalla retorica del dovere e ricucito sul corpo del giorno, è diventato un farmaco potente: non per guarire — perché in fondo restiamo malati in un mondo di malati che non sanno di esserlo — ma per abitare meglio la malattia, darle forma, darle un ritmo che non mi travolga.
La mia cura è certosina: osservo come gli ormoni si attaccano alle abitudini, come cambiano al variare di un gesto, un orario, un pensiero. Scopro che ciò che chiamavamo “vizio” o “valore” è solo un interruttore: può sedare, può accendere. Sta a me decidere se usarlo per fuggire o per stare.
Non cerco l’anestesia perfetta. Cerco una lucidità praticabile: una quotidianità che non mi prometta salvezza, ma che mi restituisca presenza. Se questa è una malattia, è anche la mia occasione: smontare le etichette, cambiare la forma della casa, e restare sveglio mentre il mondo dorme.
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