La rivoluzione dei miei pomeriggi

C’è stato un tempo in cui il pomeriggio — soprattutto la domenica — era una terra di nessuno. Un limbo in cui cercavo piccole fughe: un’ora al bar per “spegnere”, una passeggiata senza meta, qualche distrazione per anestetizzare quella cappa sottile di malinconia. Credevo di difendermi dal dovere, e invece mi stavo difendendo dal vuoto. Poi qualcosa si è assestato: ho smesso di dividere la giornata in comparti stagni e ho iniziato a chiedermi non “che cosa devo o posso fare”, ma “che valore ha ciò che sto facendo adesso?”. È lì che la mia mappa interiore si è ridisegnata.

La vecchia dicotomia dovere/piacere non regge più. Il cervello, rieducato con pazienza, non cerca valvole di sfogo: cerca densità. Da una parte il tempo significativo — quello che mi nutre, mi allinea, mi fa sentire in direzione; dall’altra il tempo scadente — quello che riempie ma non sazia, che occupa ma non orienta. Dentro il tempo significativo è entrato anche il lavoro: non come un idolo produttivista, ma come un luogo di coerenza. Curare le lezioni, pensare agli studenti, sistemare una correzione: sono azioni che hanno un peso specifico, perché si legano a ciò che voglio essere quando insegno.

Il pomeriggio ora ha un rito semplice: pranzo senza fretta, un pisolino breve, il caffè che rimette in circolo l’attenzione. E poi il computer. Non per dovere, ma perché lì ritrovo un filo: preparo materiali, ordino idee, rileggo appunti. Ogni gesto ha il suo perché, e il perché non è “fuggire” o “compensare” ma dare forma. È una postura mentale: non consumo il tempo, lo investo. E quando investo bene, la stanchezza che arriva è una stanchezza buona, come quella dopo una camminata fatta con il passo giusto.

C’è, però, un ribaltamento inatteso: se prima scappavo verso l’esterno, ora rischio di rimanere troppo all’interno. Dopo un paio d’ore di concentrazione, sento il desiderio di uscire, ma la mente domanda: “per farci cosa? per dire cosa?”. È una domanda-trappola, perché misura il valore dell’incontro solo sul metro dell’utilità immediata. Sto insegnando al cervello una verità diversa: la connessione ha valore anche quando non “produce” nulla di tangibile. Parlare di sport, commentare una notizia di politica, condividere un frammento della giornata: sono fili sottili che tessono appartenenza. Non tutto il senso sta nella profondità; una parte abita nella continuità dei legami.

Questo addestramento alla socialità gratuita — gratuita nel senso di non finalizzata — richiede la stessa disciplina con cui ho smontato la gabbia dovere/libertà. La regola che mi do è semplice: esco anche senza argomenti, incontro anche senza pretesti. L’obiettivo non è “riempire” un bisogno ma lasciare che l’incontro, a volte, lo crei. Come a scuola: non sempre una lezione parte da un grande tema; spesso è l’attenzione reciproca a generarlo.

Il risultato più concreto di questo cambio di sguardo è che il magone della domenica pomeriggio si è sciolto. Non perché la domenica sia diventata un lunedì meglio vestito, ma perché il baricentro non è più nel calendario. A volte perdo la percezione del giorno — sabato, domenica o martedì — e non mi dispiace: non è amnesia, è disinnesco dell’ansia da cornice. L’unico discrimine che conta è la qualità: sto facendo qualcosa che mi rende più integro, più presente, più vero? Oppure sto barattando la presenza con un anestetico?

Questo non significa inseguire una produttività senza tregua. Anzi: la pausa resta parte del lavoro, ma è una pausa piena, scelta, che serve a respirare e non a scappare. Il riposo non è una parentesi tra due obblighi; è un elemento della forma della giornata. E la forma, quando è coerente, fa da argine alle vecchie oscillazioni: meno picchi di dopamina in cerca di scuse, più serotonina distesa che regge l’arco della giornata. Non vivo per spezzare la fatica con una ricompensa: vivo perché il tessuto stesso di ciò che faccio è, per quanto possibile, già la ricompensa.

Preferisco così: lavorare sul senso del tempo “libero” invece che rivestire di libertà un tempo vuoto. Lasciare che il lavoro ben fatto appartenga alla vita buona, e che la vita buona accolga anche il gioco leggero della conversazione, l’incontro senza scopo, la piccola comunità del bar. Alla fine la domanda che guida è una sola, semplice e severa: questo gesto, adesso, alza o abbassa la qualità del mio giorno? Quando riesco a rispondere “alza”, la domenica non fa più paura — e neppure il martedì.



Alex Katz - Cane sulla spiaggia


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