Il caffè nella mia vita e il nodo della socialità
Da anni sperimento come usare la caffeina nella mia giornata. Più che il “caffè” in sé, mi interessa l’effetto della caffeina: occupa i recettori dell’adenosina (la sostanza che favorisce la sonnolenza) e, in parallelo, modula il sistema dopaminergico, aiutando motivazione e slancio. Funziona finché non si crea assuefazione.
Molti suggeriscono il primo caffè a metà mattina per non interferire con il picco di cortisolo al risveglio. Nel mio caso, dopo tante prove, ho capito che dopo circa mezz’ora che sono sveglio, quando arrivo al bar, il caffè mi dà proprio quell’innesco: mi metto subito al computer, ascolto musica, scrivo post, faccio ricerche. L’effetto dura un paio d’ore; poi per fortuna subentra un altro motore: la scuola, che la mia mente ormai riconosce come luogo denso di significato. Così la motivazione resta su livelli buoni anche senza altra caffeina.
Il crollo arriva dopo pranzo. Per oltre un anno avevo eliminato il caffè pomeridiano: solo decaffeinati e orzo. Di recente ho reintrodotto un caffè dopo il breve pisolino: funziona. Sento di nuovo quella scintilla—mi torna la voglia di lavorare, scrivere, cercare, ascoltare musica—con un’energia simile alla mattina.
Finito l’effetto, però, arriva il capitolo socialità. Dovrei uscire e incontrare persone, anche care, ma faccio fatica: dopo un po’ la mia mente non riconosce più la conversazione come significativa. Non è “colpa degli altri”: sono io che devo educare la mia mente a essere meno selettiva e a restare quieta, serena, presente quando sono con chi mi è caro.
In sintesi: sto imparando a usare la caffeina come innesco puntuale—mattina presto e, con misura, dopo il riposino—per accendere motivazione e senso del fare. E, in parallelo, sto lavorando sul mio modo di stare con gli altri: non cercare sempre l’intensità, ma concedermi la semplicità della compagnia, senza pretendere che ogni incontro sia “densissimo” di significato.
pisello alle nove!
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