Titolo: Giochi linguistici e usi dell’infinito
Nel gioco linguistico della geometria scolastica, dire “un segmento ha infiniti punti” non crea alcun dubbio. Non pensiamo alla cardinalità o alla non numerabilità, né a Cantor: sappiamo che è così in quel gioco, e basta. L’affermazione funziona come una regola interna, non come la descrizione di un’entità misteriosa. È come negli scacchi: “il cavallo si muove a L” non richiede di sapere cos’è una “L” in senso geometrico — è una convenzione che regola il gioco.
Lo stesso vale per molti altri usi di infinito:
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nella matematica scolastica, “limite all’infinito”, “somma infinita”, “infinite cifre decimali” sono espressioni correnti che funzionano senza bisogno di definizioni tecniche complete;
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nel linguaggio comune, dire “ho aspettato un tempo infinito” è un’iperbole;
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in ambito religioso, “Dio infinito” appartiene a un gioco teologico, con regole proprie.
In tutti questi casi, se restiamo nel contesto, non c’è ambiguità: le parole hanno un significato ben definito perché le regole del gioco sono condivise.
Le difficoltà iniziano quando ci spostiamo da un gioco linguistico a un altro senza cambiare le regole:
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dalla geometria elementare alla fisica, chiedendo “come fanno punti senza estensione a costituire un segmento?”;
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dalla matematica scolastica alla metafisica, domandando “che tipo di infinito è quello delle cifre di π?”;
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dal discorso comune alla cosmologia, interrogandosi se “l’universo infinito” significhi “senza confini” o “di estensione illimitata”;
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dalla regola “0,9 periodico = 1” in aritmetica elementare a un’idea intuitiva di numero che non contempla l’uguaglianza di due scritture così diverse.
Anche dentro la matematica, giochi diversi possono entrare in frizione.
Il calcolo dei limiti e delle serie infinite funziona bene con un’idea intuitiva di infinito come “proseguire senza fine” o “aggiungere sempre qualcosa”. Ma quello stesso apparato, applicato a 0,9 periodico = 1, manda in crisi quell’intuizione: qui l’infinito non è più “andare avanti all’infinito”, ma un concetto limite che, per essere accettato, richiede di riformulare cosa intendiamo per uguaglianza numerica.
La poesia di Szymborska su π aggiunge un altro scarto: le cifre decimali non sono più solo il risultato di un algoritmo, ma qualcosa che “scorre” indipendentemente da noi, che prosegue mentre scriviamo e continuerà anche quando il mondo non ci sarà più. L’infinito qui si colora di immaginazione e temporalità cosmica, proiettandosi oltre il piano matematico.
Questi scricchiolii non significano che i giochi originari non funzionino — funzionano benissimo nei loro ambiti. Quello che non funziona è l’idea che i significati stiano al di là dei giochi, come entità fisse e universali che le parole richiamano sempre allo stesso modo.
In una prospettiva wittgensteiniana, i significati non sono cose che il linguaggio etichetta dall’esterno, ma pratiche di uso inserite in forme di vita. Quando ci spostiamo da un gioco all’altro, non portiamo con noi lo stesso significato come un pacchetto invariabile: cambiano le regole, cambia l’uso, e quindi cambia il significato stesso. L’illusione che esista un significato “oltre” i giochi linguistici è ciò che genera molti dei nostri dilemmi filosofici — compresi quelli sui punti del segmento, sull’infinità dell’universo, o sulla natura stessa di ciò che chiamiamo “infinito”.
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