Il mio universo musicale
Quando mi chiedono che musica mi piace, non riesco a rispondere con un genere. Preferisco raccontarlo come una costellazione di dischi che hanno segnato il mio modo di ascoltare, e forse anche di guardare il mondo.
Nel 1965 A Love Supreme di John Coltrane: non lo sento solo come musica, ma come preghiera, rito, slancio spirituale. È il jazz che si fa trascendenza, il segno che per me la musica deve avere un senso oltre il suono.
Pochi anni dopo, nel 1969, Happy Sad di Tim Buckley racconta di come la canzone possa uscire dai suoi confini classici. La voce diventa strumento, il folk si apre all’improvvisazione. Amo questa libertà formale messa al servizio dell’espressività.
Nel 1967, Songs of Leonard Cohen mostra l’altra faccia della medaglia: minimalismo, precisione poetica, introspezione. Se Buckley dilata, Cohen concentra. Due poli opposti ma per me complementari.
Sempre nel ’67, The Velvet Underground & Nico rovescia le regole: arte concettuale, suono sporco, temi scomodi. La musica diviene laboratorio e manifesto estetico.
Il 1971 è l’anno di Tago Mago dei Can, dove la psichedelia incontra il rigore ritmico tedesco. L’improvvisazione diventa trance e l’orecchio viene portato oltre i limiti dell’ascolto tradizionale.
Nel 1974, Autobahn dei Kraftwerk apre una nuova "autostrada" sonora: elettronica, minimalismo e visione futurista che ridisegnano il concetto di pop.
Poi arriva Another Green World (1975) di Brian Eno: la sintesi perfetta tra pop e ricerca, tra melodia e paesaggio sonoro. È da qui che parte il mio legame con l’ambient, una linea sotterranea che attraversa tutto il mio universo musicale.
Nel 1977, Suicide riduce tutto all’osso: due persone, un’urgenza punk, un taglio nella tela, uno squarcio nell'universo.
A metà anni ’80, Halber Mensch degli Einstürzende Neubauten porta nel cuore dell’industrial poetico: tubi, lamiere e rumori che diventano architetture emotive. La città e la fabbrica si trasformano in partitura.
Nel 1986, World of Echo di Arthur Russell è un atto di intimità radicale: solo voce, violoncello e delay, in una dimensione sospesa. Qui ho trovato la vulnerabilità trasformata in linguaggio musicale.
Nel 1990, 1990 di Daniel Johnston è un diario a cuore aperto: canzoni fragili, registrazioni imperfette, un’innocenza disarmante che diventa arte.
Il 1991 mi porta Spiderland degli Slint, un disco che inventa il post-rock narrativo: storie sussurrate e poi esplose, dinamiche che diventano racconto.
Il salto al 2000 con Kid A dei Radiohead: il pop implode, l’elettronica dialoga con il rock, il disorientamento diventa estetica.
Nel 2003, Everyone Alive Wants Answers di Colleen mi apre a miniature sonore e oggetti acustici trattati, un’arte fatta di piccolissime sfumature.
Nel 2006, Silent Shout di The Knife porta un’elettronica oscura, teatrale, politica. È il mio lato notturno, quello che ama il suono come maschera.
Il 2008 è l’anno di Dragging a Dead Deer Up a Hill di Grouper: chitarra e voce immerse in una nuvola, come un sogno lontano. Intimità sfocata e meditativa.
Infine, nel 2018, abysskiss di Adrianne Lenker chiude il cerchio con un cantautorato fragile e puro, che mi riporta alla radice Cohen-Buckley ma con una lingua nuova.
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