Vivere tra i gradi del mondo

Sottotitolo: riflessioni estive

D’estate faccio cose molto diverse… ma non solo rispetto al resto dell’anno. Faccio cose diverse rispetto agli altri. Mentre molti cercano riparo nell’aria condizionata già a 25 gradi, io fino a 30 – e a volte anche oltre – non sento nemmeno il bisogno di accendere un ventilatore. Così come d’inverno, sotto i 16 gradi, accendo i termosifoni, ma senza strafare. Non lo vivo come un sacrificio: mi adatto alla temperatura esterna, e il mio corpo si regola da sé. Sto bene, e soprattutto evito sbalzi che trovo innaturali.

Credo, forse ingenuamente, che se l’uomo ha superato la sfida dell’evoluzione, allora può vivere tra 16 e 30 gradi, non solo in quella fascia artificiale tra i 19 e i 23. Non posso provarlo, ma penso che anche il sistema immunitario si rafforzi così, senza continue compensazioni meccaniche.

In questo equilibrio rientra anche il mio modo di mangiare. Non seguo una dieta in senso stretto: ho semplicemente costruito nel tempo un’alimentazione che non affatica l’organismo. È come se lo mettesse nella condizione di adattarsi più facilmente a tutto, comprese le temperature. Mangio in modo che non ci siano picchi né carenze, e questo forse favorisce una regolazione interna più naturale. È un'ipotesi, ma la vivo sulla mia pelle.

Bevo solo acqua a temperatura ambiente, mai dal frigo. Anzi, d’estate bevo volentieri anche bevande calde come orzo, tè o tisane. Il senso di freschezza dato da una bibita fredda mi sembra solo apparente: in realtà il corpo deve poi compensare, e questo lo affatica. È solo una percezione immediata, come un inganno.

L’estate, per me, è anche un laboratorio. Un tempo perfetto per sperimentare nuove abitudini. Ma non parlo di “buone abitudini” come lista di doveri: parlo di abitudini che mi fanno stare meglio, nel senso pieno e profondo del termine. Quando sto meglio, sono più lucido, più presente, e anche il mio corpo – credo – ne trae beneficio.

Quest’estate, per esempio, sto cercando di frequentare meno i bar. Non che bevessi o facessi chissà cosa, anzi: ascoltavo musica, leggevo, chiacchieravo. Ma mi sono accorto che stava diventando più un automatismo che un piacere vero. Ora mi concedo solo le prime ore del giorno, quando l’aria è ancora fresca: scrivo per questo blog, annoto idee, organizzo con cura la mia giornata e preparo il materiale scolastico.

Poi vado in palestra per una mezz’ora: tutti i giorni, se posso. È diventato un rito, un momento per sentire il corpo vivo, senza eccessi. Dopo torno al bar, ma solo per due chiacchiere vere: con gli amici più anziani (tra i 65 e gli 85 anni), con cui si parla di geopolitica senza leggerezze, oppure con Ermes, che conosce ogni piega della storia e dell’arte del paese. Ha passato una vita negli archivi: è una miniera di racconti, e ascoltarlo è un piacere intellettuale e umano.

Poi torno a casa, e non vado più al bar. Mi dedico al riposo, allo studio, alla riflessione. Alle 17:30 lascio il cellulare a casa e vado al fiume: un altro piccolo rito quotidiano, che ha preso lo stesso valore delle ore fresche del mattino. Alle 20 sono a casa. Magari esco a fare due passi, magari no. Ma quando arriva la sera, so che ho vissuto una giornata piena, equilibrata, appagante.

E sinceramente, faccio davvero fatica a concepire un’esistenza più felice della mia.

Barca a vela, nebbia mattutina - Yoshida Hiroshi 









Commenti

Post popolari in questo blog