📌 venerdì – diario dalla scuola

“A che serve studiare?”: una chiacchierata in prima

Questa settimana, con i ragazzi della mia prima, è nata una conversazione che mi ha fatto riflettere molto — e spero anche loro. Alcuni hanno detto esplicitamente che studiare non serve a fare soldi, e quindi non ne vedono l’utilità. Una frase che, lo ammetto, mi colpisce ogni volta. Ma ho cercato di non partire da un discorso moralista, né da una predica su quanto sia "giusto" studiare. Ho preferito rispondere in un altro modo: raccontando il mio punto di vista, in modo personale e forse anche un po’ vulnerabile.

Ho detto loro che io, da buon materialista epicureo, cerco nella vita il piacere. Ma non un piacere effimero o consumistico: cerco quei piaceri che portano a una felicità stabile, duratura, che si rinnova ogni giorno. E in quest’ottica, non credo che i beni materiali possano davvero rendere felici.

In psicologia si parla di adattamento edonico: qualsiasi oggetto, qualsiasi lusso, dopo un po’ smette di farci effetto. Ci si abitua. E allora ho fatto un esempio concreto:

“Io penso che se guadagnassi fino a 3.000 euro al mese sarei contento, perché potrei fare esattamente la vita che faccio adesso, ma con più tranquillità. Potrei pagare la rata del mutuo senza ansia, andare a trovare più spesso i miei genitori, respirare un po’ di più. Ma se mi offrissero di guadagnarne 6.000 o 7.000... non sono sicuro che la mia vita migliorerebbe. Anzi, probabilmente non farei più questo lavoro.”

E poi ho aggiunto una cosa molto sincera:

“Io voglio stare qui con voi. Amo il fatto che possiamo parlare di queste cose, che possiamo fare una chiacchierata vera e poi perderci in un quesito di matematica. Mi dà gioia trovare un esercizio interessante e pensare che il giorno dopo ve lo proporrò. Questo è il mio mondo, il mio flusso. E attorno a me ho persone che mi vogliono bene e a cui voglio bene. Questo per me è felicità.”

Ho provato a farli riflettere su un paradosso: molte persone ricche non sono felici. Non perché siano ricche — non è quello il punto — ma perché non hanno un mondo in cui perdersi appagati. A volte, paradossalmente, avere un problema quotidiano da risolvere (come far quadrare i conti) dà persino un senso alla giornata, perché ti costringe a stare nel presente.

Inoltre, se davvero guadagnassi cifre più alte, i miei standard si alzerebbero, inizierei a frequentare ambienti più costosi, cambierebbero i miei desideri. E nel giro di qualche mese rischierei di sentirmi più povero di adesso, perché desidererei ancora di più.

Ho concluso la chiacchierata con un pensiero che mi sta molto a cuore.
Il vero problema del rapporto tra i ragazzi e la scuola oggi è proprio questo: la scuola viene percepita come inutile rispetto all’unico obiettivo che la società sembra indicare: arricchirsi.

E non aiuta il fatto che il mondo della scuola venga spinto sempre più nella direzione del “formare per il lavoro”, come se il lavoro fosse l’unico mondo da conoscere, e non uno dei tanti in cui orientarsi. Così tutto si misura in termini di utilità immediata, nel famoso “a che serve?”, che finisce per svuotare di senso non solo lo studio, ma anche la possibilità di costruirsi un mondo interiore, un mondo in cui perdersi e vivere nel flusso.

Io penso che la scuola dovrebbe servire a questo: a dare strumenti per vivere bene, per conoscersi, per capire il mondo, anche quando il mondo non si piega a logiche di profitto.
E se ogni tanto un ragazzo, anche solo uno, si ferma a pensarci... allora valeva la pena. Anche questa settimana.




Lavagne - Samira Makhmalbaf

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